giovedì 19 maggio 2011

A MIO PADRE - G. Cirilli e M. Perrone






A MIO PADRE

di Gabriele Cirilli e Marco Perrone

Papà
mi piacerebbe venirti a trovare.

Mi piacerebbe stare un po' vicino a te mentre fai la "Settimana enigmistica".
Ti ricordi quando facevamo a gara a chi la leggeva per primo? Avevo dieci anni. Tu la compravi e io te la rubavo!
Bruciavo dalla frenesia di aprirla alla pagina "mia" per fare l'unico gioco che sapevo fare: unire tutti i puntini e scoprire la figura della settimana. Io, prima che lo facessi tu.

Poi col tempo mi hai spiegato le parole crociate, tutte quelle definizioni, le orizzontali, le verticali…
E lì e' nata la mia prima illusione: il pensiero che la vita può essere un incastro perfetto, dove ogni cosa ha il suo posto, basta avere le risposte giuste.

Non mi avevi detto la verità, papà. La vita non è mai così. Tu lo sapevi, vero? E forse proprio per questo compravi quella rivista, quella "con più di duemila tentativi di imitazione", tutti destinati a fallire, ora lo so anch'io.

Chissà, papà, a quante definizioni hai saputo rispondere. Chissà quali erano le tue domande di uomo: non le ho mai sapute, purtroppo non ho fatto in tempo.


Mi piacerebbe telefonarti per farti gli auguri di compleanno. Per dirti la frase che ti dicevo sempre: "allora, stavolta quanti ne compi?", e sentire la tua risposta di sempre: "18". "Sì, per gamba!".

E darti quei regali inutili, scelti distrattamente, senza mai interrogarmi veramente sui tuoi gusti, quella cravatta che non hai mai messo, quella pipa che non hai mai fumato, quell'agenda… che non hai mai aperto.

Mi piacerebbe giocare un po' con te.

Scendere in quel piazzaletto nascosto dai castagni che sappiamo io e te, e tirare due calci al pallone. Vederti con quelle tue gambe un po' troppo magre e quella pancetta rotonda… correre… dietro le traiettorie sbilenche di un "SuperTele" sgonfio, tu più bambino di me.

Giocare a tennis sul prato, come quando mi hai insegnato, con quelle racchette di legno e quella pallina spelacchiata, tra rimbalzi impossibili e sudate gigantesche. C'era Panatta che ero io, e McEnroe che eri tu, tutti e due in attesa… di mangiare le fettine panate di mamma, seduti al tavolino da picnic, quello verde, "Lo sai che non lo trovo più?".

Mi piacerebbe parlarti, papà, e raccontarti che sono padre anch'io. Che c'è un bambino che adesso mi chiama papà, come io chiamavo te.

Oddìo, veramente chiama più mamma…

Ma sentissi come lo dice bene, "papà". Poi ride e gli viene la fossetta nelle guance.

Lui sembra me… che sembro te.

Chissà se un giorno lui dirà a me quello che ora io sto dicendo a te. Beh… spero non così presto, eh?

Vorrei tenerti ancora la mano, come quando andavamo al cinema… io e te, a vedere "Anche gli angeli mangiano fagioli" oppure "Lo chiamavano Trinità", e siccome era una cosa "da uomini" a mamma dicevi "andiamo dal dottore"… e mamma faceva finta di crederci.
Ma lo sai che avevi ragione, papà: per me era come una medicina miracolosa, aveva il potere di guarirmi da qualunque ansia. Io… e il mio papà… a vedere i film di cazzotti. Eravamo invincibili.
 

Ora, quando rivedo quei film in TV, rivedo solo te, e quei pugni sono carezze.
Vorrei tenere ancora la mano nella tua come tutte le volte in cui l'ho tenuta… tranne una.
Quella volta lì che non c'era da andare insieme al cinema, che non c'era da tuffarsi insieme nel mare e nemmeno da attraversare insieme la strada.

O forse sì… C'era da attraversare una strada… ma quella strada l'hai attraversata da solo…
Io sono rimasto al di qua… a salutarti…
Ciao papà.

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